Amministrativo

Interdittiva antimafia anche se i fatti risalgono a 20 anni prima

Francesco Machina Grifeo

L'interdittiva antimafia è legittima anche se si fonda su fatti risalenti nel tempo, sempreché vadano a comporre un quadro indiziario complessivo dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, con la sentenza del 2 gennaio 2020 n. 2 (Pres. Frattini, Est. Ferrari), accogliendo il ricorso della ministero dell'Interno – Ufficio territoriale del Governo di Crotone. In primo grado invece, il Tar Calabria aveva dato ragione all'impresa affermando che l'interdittiva era priva di un adeguato supporto indiziario e che l'estorsione subita nel '98 dal gestore della società era ormai risalente nel tempo.

Per la III sezione tuttavia (come chiarito da Cds 515/2019) «il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica la perdita del requisito dell'attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l'inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l'irrilevanza della ‘risalenza' dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità».

Con riferimento poi alla presenza, all'interno della società, di soggetti vicini agli ambienti della malavita, per i giudici di Palazzo Spada è sufficiente ricordare che «proprio in relazione ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell'impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione (7 febbraio 2018, n. 820) ha affermato che l'Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del "più probabile che non", che l'impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto».

«Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso - prosegue la decisione -, all'interno della famiglia si può verificare una "influenza reciproca" di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch'egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia', sicché in una ‘famiglia' mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l'influenza del ‘capofamiglia' e dell'associazione».

«Hanno dunque rilevanza - conclude la sentenza sul punto - circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e peculiari realtà locali, ben potendo l'Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l'esistenza – su un'area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia' e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti».

Infine, diversamente da quanto assume il giudice di primo grado, per il Consiglio di Stato «non può sottacersi il fatto che due dipendenti della società appellata siano legati da vincoli parentali a componenti alla cosca». Anche qualora gli stessi fossero stati assunti con la cd. clausola sociale, argomentano i giudici, «non è offerto neanche un principio di prova del tentativo di non addivenire a tali assunzioni né rileva il fatto che gli stessi occupassero bassi profili, essendo uno autista e l'altro addetto alle pulizie. Indipendentemente, infatti, dalle mansioni ricoperte, un dipendente di società legato alla malavita può costituire un ponte tra questa e la società per la quale lavora».

Consiglio di Stato - Sentenza 2 gennaio 2020 n. 2

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