Amministrativo

Inquinamento, la holding resta obbligata alle bonifiche

di Paola Maria Zerman

In caso di inquinamento ambientale è responsabile la holding del gruppo, anche se a commettere i fatti è stata una controllata nel frattempo ceduta a un altro gruppo societario. Lo ha affermato il Consiglio di Stato che, con la sentenza 2301/2020 depositata il 6 aprile, ha riconosciuto in via definitiva la responsabilità di Edison per il disastro ambientale di Bussi, in Abruzzo: la società dovrà ora procedere alle bonifiche.

Chi inquina paga
La pronuncia, per garantire l’operatività del principio, di matrice comunitaria, “chi inquina paga” (recepito nel Codice dell’ambiente, decreto legislativo 152 del 2006, articolo 3-ter e articolo 239), ha fatto applicazione ancora una volta, dopo l’Adunanza plenaria 10 del 2019, della nozione “sostanzialistica” di impresa, già ideata dalla giurisprudenza comunitaria in materia di concorrenza. In base a essa, le responsabilità ambientali debbono essere allocate in capo ai soggetti che, nel corso degli anni, hanno tratto un utile dalle attività inquinanti grazie alla distribuzione dei dividendi o al risparmio di spesa derivante dalla mancata adozione di adeguati presidi ambientali.

Diversamente, in una logica formalistica, il principio “chi inquina paga” potrebbe essere eluso in virtù della moltiplicazione delle società, possibili scatole vuote, tanto da far ricadere, alla fine, i costi del recupero ambientale sulla collettività, per l’uso del denaro pubblico, o sul proprietario incolpevole del sito.

La nozione di impresa
Con la pronuncia del 6 aprile, i giudici di palazzo Spada applicano la nozione sostanzialistica di impresa all’ipotesi di una pluralità soggettiva di società facenti parte dello stesso gruppo, con imputazione della responsabilità ambientale nei confronti della holding o società “madre”. E ciò, sebbene quest’ultima contestasse la propria responsabilità, anche perché, nelle more, la società controllata inquinante era stata ceduta ad altro e diverso gruppo societario.

Accertato, in base al principio di causalità del “più probabile che non”, che l’inquinamento storico del sito, risalente agli anni ’80 del 1900, fosse ascrivibile all’attività industriale svolta dalla società controllata quando ancora era sotto la direzione della holding, il Consiglio di Stato, confermando la pronuncia del Tar Abruzzo (86 del 2019), ha ritenuto legittima l’ordinanza rivolta alla holding di messa in sicurezza e di rimozione dei rifiuti depositati in modo incontrollato nelle discariche e di rimozione delle altre fonti di contaminazione.

E ciò, come si legge in sentenza, in virtù del «principio della prevalenza dell’unità economica del gruppo rispetto alla pluralità soggettiva delle imprese controllate, per cui, per gli illeciti commessi dalle società operative, la responsabilità si estende anche alle società madri, che ne detengono le quote di partecipazione in misura tale da evidenziare un rapporto di dipendenza e, quindi, da escludere una sostanziale autonomia decisionale delle controllate».

Il danno ambientale non si “prescrive”
Non rileva poi, secondo i giudici, il fatto che si trattasse di un inquinamento “storico” del sito - con mutamento anche della titolarità del medesimo -, anteriore di decenni alla previsione legislativa degli obblighi di bonifica disciplinati dal Codice dell’ambiente (articolo 239 e seguenti) e prima ancora dal decreto Ronchi (articolo 17 del decreto legislativo 22 del 1997); occorre infatti considerare il carattere permanente del danno ambientale, che perdura fintanto che persista l’inquinamento.

Di conseguenza, l’autore dell’inquinamento rimane per tutto il tempo soggetto agli obblighi conseguenti alla sua condotta illecita, secondo la successione di norme di legge nel tempo. Obblighi, peraltro, di non poco conto, considerata la funzione riparatoria dell’illecito ambientale, non circoscritta alla sola differenza di valore del bene leso rispetto a quello che aveva prima del danno, ma estesa «a tutti i costi necessari per ripristinare il complessivo pregiudizio inferto all’ecosistema naturale» (Consiglio di Stato adunanza plenaria, sentenza 10 del 2019).

Se l’obbligo di bonifica del sito, con i relativi costi, ricade sull’ente, con la conseguente imputazione alla persona giuridica della condotta degli amministratori (salvo che sia dimostrato che avessero agito di propria iniziativa e in contrasto con gli interessi della società), a questi fa capo la responsabilità penale in caso di omissione della stessa.

Una responsabilità che, in seguito alla accentuata sensibilità del legislatore per la salvaguardia dell’ambiente, è ora divenuta più grave rispetto all’ipotesi contravvenzionale per omessa bonifica prevista dall’articolo 257 del Codice dell’ambiente. La norma, infatti, fa salva l’ipotesi della configurazione dei più gravi reati inseriti nel Codice penale (nuovo Titolo VI-bis, delitti contro l’ambiente) dalla legge 68 del 2015.

Consiglio di Stato, sentenza 2301/2020 del 6 aprile

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