Amministrativo

La variante non può sanare il vizio del permesso di costruire

«Non è consentito sanare, né legittimare per il tramite di una semplice variante, un vizio del permesso di costruire, stante che nell'uno come nell'altro caso l'avallo postumo ha ad oggetto l'illecito, non il titolo edilizio; per intervenire sul provvedimento, infatti, occorre che l'Amministrazione agisca in autotutela che, ove si concretizzi in una convalida, avente efficacia ex tunc proprio in ragione delle sottese esigenze di economia dei mezzi dell'azione amministrativa e di conservazione, renderebbe legittimo l'intervento ab origine, senza necessità di alcuna sanatoria». Lo ha stabilito il Consiglio di Stato con la sentenza del 28 agosto scorso n. 5288.

Diversamente l'atto avrebbe la duplice e distinta funzione di sanare ex articolo 36 del Dpr n. 380/2001 parte delle opere in quanto realizzate in difformità dalla progettualità di cui al permesso di costruire e di legittimare in variante quella ancora da realizzare. «Senza tuttavia tenere conto che la variante presuppone ontologicamente un progetto assentito, che non può identificarsi in quello di cui si è chiesto nel contempo l'avallo postumo, stante la riscontrata illegittimità di quello originario».

In materia di abusi edilizi, infatti, spiega la decisione, la peculiare natura della cd. sanatoria ordinaria, per il rilascio della quale l'Amministrazione è chiamata a svolgere una valutazione vincolata, priva di contenuti discrezionali, non consente l'integrazione con diverse fattispecie previste da altri corpi normativi.

Nel caso specifico, rileva il Collegio, l'opera realizzata costituiva un organismo edilizio totalmente diverso da quello assentito con il permesso di costruire del 2004«in quanto la necessitata riduzione della superficie edificata, tale da rendere il progetto conforme alla disciplina urbanistica vigente, si è risolta, tra l'altro, nella minore dimensione del manufatto, in lunghezza e in altezza, con sostanziale eliminazione di un piano a destinazione abitativa, trasformato mediante modifica della copertura del tetto». «E' ovvio – prosegue la decisione - che all'organismo finale si è addivenuti senza soluzione di continuità realizzando i tre corpi di fabbrica principali, ed arrestandone poi la edificazione al primo piano: ma lo è egualmente che esso non corrispondeva da subito al progetto assentito, per cui da un lato era da considerare interamente abusivo, ai fini della sanatoria; dall'altro, la variante, se circoscritta alla sola parte ancora da realizzare, veniva ad innestarsi non sulla progettualità originaria, siccome completamente disattesa, ma su quella che si è chiesto di sanare, ovvero su un titolo incerto e comunque inesistente al momento della presentazione dell'istanza».

La II Sezione ha dunque chiarito che se l'abuso consegue (anche) alla illegittimità del titolo edilizio originario, la sanatoria non può fungere da convalida dello stesso, consentendo nel contempo di correggere l'errore dell'atto e legittimare ex post l'illecito. La convalida, infatti, avendo efficacia ex tunc, renderebbe ultronea la sanatoria, che riguarda i fatti, e non gli atti. D'altro canto, la variante in corso d'opera è ontologicamente incompatibile con un abuso non ancora sanato. Essa infatti si caratterizza come una modalità per adeguare un progetto in itinere prima della chiusura dei lavori e costituisce «parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale».

In definitiva, per i giudici, la astratta ammissibilità di provvedimenti a contenuto plurimo, caratterizzati da un'unitarietà solo formale, ma non anche sostanziale, in quanto scindibili in molteplici atti di diverso contenuto, indipendenti l'uno dall'altro, deve essere contemperata col divieto di commistione tra profili incompatibili tra di loro.

Non esiste, spiega la sentenza, nessuna pregiudiziale sistematica alla confluenza in un unico provvedimento di due distinte finalità. L'ordinamento contempla, anzi, pacificamente la categoria degli atti a contenuto plurimo, caratterizzati da un'unitarietà solo formale, ma non anche sostanziale, in quanto scindibili in molteplici atti di diverso contenuto, indipendenti l'uno dall'altro. Essa tuttavia non consente la commistione di finalità eterogenee, a maggior ragione avuto riguardo alla tipicità che connota ontologicamente il permesso in sanatoria. L'istituto del cosiddetto accertamento di conformità, o sanatoria ordinaria, nella disciplina dell'articolo 36, Dpr n. 380 del 2001 (ma ancor prima in quella dell'articolo 13, legge n. 47 del 1985), concerne la legittimazione postuma dei soli abusi formali, cioè di quelle opere che, pur difformi dal titolo (od eseguite senza alcun titolo), risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, non solo vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche all'epoca della loro realizzazione. La sanabilità dell'intervento, in altri termini, presuppone necessariamente che non sia stata commessa alcuna violazione di tipo sostanziale, in presenza della quale, invece, non potrà non scattare la potestà sanzionatorio - repressiva degli abusi edilizi prevista dagli artitcoli 27 e seguenti del Dpr n. 380 del 2001.

Consiglio di Stato - Sentenza 28 agosto 2020 n. 5288

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