Civile

Il licenziamento individuale non può aggirare la mobilità

di Angelo Zambelli

Il datore di lavoro non può licenziare individualmente un dipendente per gli stessi motivi alla base della procedura di mobilità aperta poco prima e conclusasi con accordo sindacale non accettato dal lavoratore. Questo il principio statuito dalla Corte di cassazione con la sentenza 808/2020.

Dopo la procedura collettiva che prevedeva, quale unico criterio di scelta, la non opposizione al recesso, il datore di lavoro, decorsi i termini previsti dalla legge 223/1991, ha licenziato per giustificato motivo oggettivo un dipendente che, seppur in esubero, non aveva accettato l’accordo, motivando il recesso individuale con la soppressione della posizione lavorativa.

Il tribunale ha dichiarato nullo il recesso in quanto ritorsivo, mentre la Corte d’appello, escludendone la nullità ma non l’illegittimità, ha dichiarato risolto il rapporto in base all’articolo 18, commi 7 e 5, dello statuto dei lavoratori, con condanna del datore di lavoro al pagamento della relativa indennità risarcitoria.

La Suprema corte, rigettando i motivi di ricorso proposti dall’azienda al fine di vedere accertata la legittimità del licenziamento individuale, ha precisato come il “controllo” sindacale della procedura collettiva resterebbe del tutto privo «di effettività ove – all’esito della gestione “procedimentalizzata” dei motivi di riduzione del personale rappresentati nella comunicazione di avvio della procedura – fosse consentito al datore di lavoro di ritornare sulle sue scelte…attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo…sottratti al confronto sindacale».

A ciò va aggiunto che, qualora «venga raggiunta una intesa con le organizzazioni sindacali, il vulnus riguarderebbe anche il rispetto di tali accordi…la cui obbligatorietà non può esaurirsi nel tempo all’atto di conclusione della procedura», in quanto «gli impegni assunti vengono meno solo per effetto del modificarsi della situazione aziendale che costituisce il presupposto dell’accordo raggiunto».

Ragionando diversamente, le intese con il sindacato si ridurrebbero a un mero passaggio formale del procedimento e non, come richiesto dalla legge 223/1991, a una gestione partecipata della situazione di eccedenza aziendale rappresentata dall’imprenditore.

Sulla scorta di tali principi, la Corte ha, quindi, confermato la correttezza del percorso logico-giuridico dei giudici territoriali laddove, sulla base del preliminare accertamento dell’identità delle ragioni poste alla base della procedura collettiva e del successivo licenziamento individuale, è stata accertata l’illegittimità del secondo.

I giudici di legittimità hanno tuttavia cassato con rinvio la pronuncia della Corte d’appello nella parte in cui è stata esclusa la natura ritorsiva del recesso sul rilievo dell’assenza del carattere determinante. La Cassazione, richiamando il proprio orientamento, ha precisato che, affinché «resti escluso il carattere determinante del motivo illecito del licenziamento…non è sufficiente che il datore di lavoro alleghi l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo ma è necessario che quest’ultimo risulti comprovato e che, quindi, possa da solo sorreggere il licenziamento, malgrado il proprio motivo illecito».

Corte di cassazione, sentenza 16 gennaio 2020 n.808

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