Civile

Il cambio del capo d’imputazione non deve impedire la messa alla prova

di Giovanni Negri

Il cambio di imputazione non può impedire la messa alla prova. Questa la conclusione della Corte costituzionale con la sentenza n. 14 depositata ieri e scritta da Francesco Viganò. La Corte conferma così una linea interpretativa assai risalente e ispirata alla considerazione della scelta dei riti alternativi da parte dell’imputato come una delle più significative espressioni del diritto di difesa.

Sono considerati così legittimi i dubbi di costituzionalità sull’articolo 516 del Codice di procedura penale avanzati dal tribunale di Grosseto che censurava come ostativa alla concessione della sospensione del procedimento con messa alla prova nel caso di contestazione di un fatto diverso. Per i giudici toscani, la disposizione era in contrasto, in particolare, con l’articolo 24 della Costituzione che riconosce il diritto alla difesa. A corroborare ulteriormente la questione di legittimità un precedente della stessa Consulta che, nel 2018, dichiarò l’illegittimità della norma del Codice (articolo 517) che impediva la messa alla prova nel caso di contestazione di una nuova circostanza aggravante.

La sentenza muove anch’essa dalla sottolineatura di alcuni precedenti nei quali venne riconosciuta l’illegittimità di alcune preclusioni, tutte accomunate dalla lesione del principio di eguaglianza, perché l’imputato veniva irragionevolmente discriminato, quanto a possibilità di accesso ai riti speciali per effetto della maggiore o minore completezza della valutazione fatta dal pm dei risultati delle indagini preliminari.

In una prima fase, si legge, le dichiarazioni di illegittimità costituzionale erano state spesso circoscritte all’ipotesi in cui la diversa o nuova contestazione riguardasse un fatto già risultante dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale (così le sentenze n. 184 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 265 del 1994). Questo criterio è stato però progressivamente abbandonato dalle pronunce più recenti (sentenze n. 82 del 2019, n. 141 del 2018, n. 206 del 2017, n. 273 del 2014 e n. 237 del 2012), nelle quali si è in sostanza sottolineato che, in ogni ipotesi di nuove contestazioni, indipendentemente dalla circostanza per cui ciò sia o meno addebitabile alla negligenza del pubblico ministero nella formulazione dell’originaria imputazione, all’imputato deve essere restituita la possibilità di esercitare le proprie scelte difensive, compresa la decisione di chiedere un rito alternativo.

Questo principio è stato applicato anche dalla sentenza n. 141 del 2018 alla contestazione di nuove aggravanti nel corso dell’istruttoria dibattimentale di cui all’articolo 517 del Codice di procedura penale, in relazione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova; istituto che, ha osservato in passato la Consulta, «ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio».

E allora, osserva in conclusione la Corte, il principio non può che essere esteso al caso in cui a venire cambiata è la stessa imputazione originaria, come nel caso approdato alla Consulta, dove il pm , a un’originaria imputazione di ricettazione aveva ritenuto di doverne sostituire una di furto in abitazione.

Corte costituzionale – Sentenza 14/2020

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