Lavoro

Legge 104, per lavoratori con handicap grave permessi slegati dalle esigenze di cura

Francesco Machina Grifeo

I permessi accordati dalla "legge 104" al lavoratore portatore di un "handicap grave" hanno l'obiettivo di garantirne «una più agevole integrazione familiare e sociale», la loro fruizione dunque «non deve essere necessariamente diretta alle esigenze di cura». Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 20243 depositata oggi, affermando un principio di diritto, e confermando l'illegittimità del licenziamento disposto da una nota Spa proprietaria di una catena di negozi di elettrodomestici e telefonini.

Alla base del licenziamento, secondo l'azienda, il fatto che il dipendente avesse «incrementato i giorni di permesso in prossimità delle festività» e dunque «per finalità estranee a quelle connesse alla cura della sua condizione di invalido». Un ragionamento già bocciato dalla Corte di appello di Brescia che aveva disposto la reintegra del lavoratore affermando che la fruizione di permessi sotto le festività non ha alcun rilievo disciplinare.

La Sezione lavoro della Suprema corte, riprendendo l'argomento, ricorda che l'articolo 33, comma 6, della legge n. 104 del 1992 è preordinato a garantire determinati diritti al portatore di handicap grave prevedendo la possibilità di usufruire alternativamente di permessi giornalieri (due ore) o mensili (tre giorni), di scegliere - ove possibile - una sede di lavoro più vicina al domicilio, di non essere trasferito in altra sede senza il suo consenso. Tutte queste garanzie, prosegue la decisione, operano all'interno del rapporto di lavoro e sono riconducibili all'art. 38 della Costituzione, «in quanto favoriscono l'assistenza sociale in via tendenzialmente mediata».

La Corte ricorda poi che anche i permessi dovuti ai familiari per l'assistenza ai disabili non vanno ricondotti alla sola "assistenza personale" ma involgono tutte quelle attività che il soggetto non sia in condizioni di compiere autonomamente. In questo senso l'abuso scatta soltanto quando l'utilizzo del permesso avvenga "per fini diversi dall'assistenza", da intendersi però come visto in senso ampio.

Se, dunque, argomenta la decisione, il diritto di fruire dei permessi da parte del familiare si pone comunque in relazione diretta con l'assistenza al disabile, il medesimo diritto riconosciuto al portatore di handicap «deve garantire alla persona disabile l'assistenza e l'integrazione sociale necessaria a ridurre l'impatto negativo della grave disabilità». L'utilizzo dei permessi da parte del lavoratore è, dunque, finalizzato «ad agevolare l'integrazione nella famiglia e nella società, integrazione che può essere compromessa da ritmi lavorativi che non considerino le condizioni svantaggiate sopportate».

L'articolo 1 della legge n. 104, infatti, prevede la piena integrazione del soggetto portatore di handicap nella famiglia, nel lavoro e nella società, per cui la concessione di agevolazioni consente di perseguire l'obiettivo di un proficuo inserimento del disabile grave nell'ambiente lavorativo. In questo senso, «l'allontanamento dal posto di lavoro più a lungo rispetto ai lavoratori (nonché ai portatori di handicap non grave) permette di rendere più compatibile l'attività lavorativa con la situazione di salute del soggetto». La fruizione dei permessi non può, dunque, essere vincolata necessariamente allo svolgimento di visite mediche, o di altri interventi di cura, essendo - più in generale - preordinata all'obiettivo di ristabilire l'equilibrio fisico e psicologico necessario per godere di un pieno inserimento nella vita familiare e sociale.

E proprio "l'intento legislativo" di perseguire una effettiva integrazione del portatore di handicap grave, prosegue la decisione, «spiega il trattamento preferenziale riconosciuto allo stesso rispetto ai familiari (che alla persona svantaggiata debbono riferire necessariamente la loro attività)». Ragion per cui, conclude sul punto la decisione, correttamente, la Corte distrettuale ha escluso la configurazione di un abuso del diritto nella fruizione dei permessi per finalità non collegate ad esigenze di cura, ed anche una situazione antigiuridica suscettibile di rilievo disciplinare.

In conclusione, la Corte ha formulato il seguente principio di diritto: «I permessi ex art. 33, comma 6, della legge n. 104 del 1992 sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione del beneficio debba essere necessariamente diretto a e esigenze di cura».

Corte di cassazione - Sentenza 25 settembre 2020 n. 20243

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