Comunitario e Internazionale

Il rapporto cliente-avvocato non può essere messo a rischio dall’indagine

di Marina Castellaneta

Gli avvocati svolgono un ruolo centrale nell'amministrazione della giustizia e, di conseguenza, le autorità nazionali inquirenti non possono procedere all'acquisizione di dati, anche se criptati, che metta a rischio il rapporto di fiducia cliente-avvocato, compromettendo il segreto professionale. E questo anche quando la polizia sta svolgendo indagini su un socio di uno studio legale.

Lo ha scritto la Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza del 3 dicembre nel caso Kirdök e altri contro Turchia (ricorso n. 14704/12) con la quale Strasburgo ha fatto prevalere la tutela della confidenzialità del rapporto cliente – avvocato rispetto alle esigenze legate allo svolgimento di indagini penali. La Corte, inoltre, ha giustificato la necessità di un differente trattamento tra avvocati e altri individui, chiedendo agli Stati l'applicazione di garanzie procedurali speciali e una protezione rafforzata per gli avvocati.

La sentenza, i cui principi valgono per tutti gli Stati parte alla Convenzione dei diritti dell'uomo, infatti, fissa una netta linea di demarcazione tra perquisizioni effettuate nei confronti dei legali e quelle previste per altri individui, riconoscendo la necessità di un differente trattamento in forza del ruolo centrale degli avvocati nell'amministrazione della giustizia.

Il caso
A rivolgersi alla Corte erano stati tre legali che, a causa di un’indagine avviata nei confronti di un socio, avevano subito la perquisizione dello studio. Gli agenti di polizia, inoltre, avevano fatto una copia dei dati contenuti nel disco fisso di un computer utilizzato non solo dall’interessato, ma da tutti gli avvocati dello studio.

Per la Corte europea, l’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti (articolo 8) non era giustificata da un bisogno sociale imperativo. Le autorità inquirenti erano consapevoli che i dati acquisiti riguardavano l’attività professionale dei legali, coperti dal segreto professionale. Inoltre, l’acquisizione in massa dei dati - una sorta di pesca a strascico, con l’acquisizione dei dati contenuti nel disco fisso - aveva determinato anche l’acquisizione di dati che non riguardavano l'indagato, ma gli altri soci dello studio.

Poco importa – osserva la Corte – che i dati non erano stati decriptati o trascritti perché la sola acquisizione ha messo a rischio il segreto professionale dei professionisti. Inoltre, proprio per il ruolo centrale degli avvocati nell’amministrazione della giustizia, le autorità nazionali avrebbero dovuto accordare garanzie procedurali speciali, in grado di non compromettere il rapporto di fiducia tra avvocato e cliente. Di qui la violazione dell’articolo 8 e l’obbligo per lo Stato di versare a ciascun ricorrente 3.500 euro per i danni non patrimoniali.

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