Penale

Droghe pesanti, dopo la Consulta patteggiamento da rideterminare

Francesco Machina Grifeo

Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, le condanne per reati «non lievi» in materia di stupefacenti vanno rideterminate al ribasso anche qualora, grazie alla riduzione di pena (fino a un terzo) che consegue al patteggiamento, rientrino nella nuova cornice edittale.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 2445 di ieri, annullando l'ordinanza del Tribunale di Monza che, in funzione di giudice dell'esecuzione, aveva rigettato la richiesta dell'imputato di rideterminare la pena, fissata (ex articolo 444 Cpp) in 5 anni di reclusione (e 12mila euro di multa), per il reato di trasporto e detenzione di 9,4 kg di eroina. Secondo il Gip, infatti, considerata la recidiva ed il dato ponderale particolarmente alto dello stupefacente il trattamento sanzionatorio non meritava comunque di essere attenuato.

Facciamo un passo indietro. Lo scorso anno, con riferimento alle cosiddette droghe pesanti, la Consulta ha dichiarato illegittimo l'articolo 73, comma 1, del Dpr n. 309 del 1990 là dove prevedeva come pena minima la reclusione di otto anni invece che di sei, ritenendola sproporzionata. In particolare, per la Consulta una differenza di ben quattro anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) costituiva «un'anomalia sanzionatoria» in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza, oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena.
Così ricostruito il quadro normativo, la Prima sezione ricorda che, in caso di dichiarazione di incostituzionalità, se la pena non è stata completamente eseguita, il giudice dell'esecuzione deve sempre rideterminarla in favore del condannato. E per le Sezioni unite (33040/2015) la pena, applicata a seguito del patteggiamento, «è da ritenersi e deve essere rideterminata, anche quando formalmente rientri nella cornice edittale della norma "ripristinata"».

Così, tornando al caso concreto, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'articolo 73, comma 1, Dpr n. 309 del 1990, «l'illegalità della sanzione discende automaticamente dalla circostanza oggettiva della diversità tra quadro sanzionatorio vigente al momento di conclusione dell'accordo processuale sulla pena e quadro normativo ripristinato a seguito della pronuncia n. 40 del 2019 della Corte Costituzionale». Nel caso di specie, infatti, la pena era stata modellata in ragione di una forbice edittale che prevedeva una sanzione minima di anni otto di reclusione, «e a detto minimo si era conformato il giudizio espresso dal giudice di merito, che aveva ratificato ex art. 444 c.p.p. l'accordo tra le parti, le quali avevano individuato la pena base nella misura di anni nove, mesi sei di reclusione».
Dunque, conclude la Corte, «la riduzione del minimo edittale imponeva al giudice dell'esecuzione di tenere conto della nuova cornice di pena in favore del condannato». Infatti nella quantificazione della sanzione la discrezionalità giudiziale «non può mai prescindere dai limiti minimi e massimi di pena che caratterizzano il dato normativo e che esprimono il livello di disvalore apprezzato dal legislatore per la condotta oggetto di incriminazione».

Corte di cassazione - Sentenza 22 gennaio 2020 n. 2445

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