Professione e Mercato

Il professionista paga l’illecito del cliente soltanto se c’è dolo

di Antonio Iorio

Per ritenere il professionista compartecipe nei reati tributari commessi dal cliente, è necessario che sia integrato il dolo specifico dell’illecito e, pertanto, l’apporto professionale prestato deve essere caratterizzato dalla volontà fraudolenta finalizzata all’evasione. Ne consegue che l’indagine deve essere tesa ad accertare che il professionista abbia agito scientemente e unitamente al cliente, al fine di realizzare lo scopo prefigurato da quest’ultimo.

Nessuna responsabilità
Si esclude invece la responsabilità a titolo di concorso nel caso in cui il professionista abbia operato sulla base dei dati fornitigli dal cliente, la cui veridicità sia stata da quest’ultimo garantita, e non vi siano, comunque, elementi dai quali poterne desumere la mendacità. Analogamente è immune da censure l’operato del professionista che si sia limitato a prestare una mera consulenza, informando il proprio cliente delle possibili conseguenze, anche penali, derivanti da determinate condotte.

È questa in estrema sintesi l’interpretazione dei giudici penali di legittimità nell’individuazione del perimetro di eventuali responsabilità del professionista rispetto agli illeciti penali commessi dal proprio cliente.

Va detto per completezza che non sono mancate nel tempo interpretazioni differenti in base alle quali sostanzialmente il concorso possa essere integrato anche con la semplice consapevolezza da parte del professionista del reato che sta commettendo il proprio cliente anche senza esserne l’ispiratore (Cassazione 1999/2018).

La volontà del professionista
È importante comprendere quando possa ritenersi provata la volontà del professionista per la realizzazione dello scopo illecito del cliente.

Di recente, ad esempio, la Corte di Cassazione (sentenza 26089/2020) ha affrontato la delicata questione dell’apposizione del visto di conformità da parte del consulente rispetto a dichiarazioni riportanti crediti di imposta rivelatisi falsi. Secondo i giudici, nella specie, il commercialista aveva fornito un apprezzabile contributo al compimento delle attività illecite in quanto lo studio professionale aveva provveduto all’invio telematico delle false dichiarazioni apponendovi il visto di conformità di sicuro mendace. Il professionista incaricato aveva omesso qualsivoglia controllo, non trattenendo copia della documentazione contabile.

Ancora, con la sentenza 36461/2019 i giudici di legittimità hanno chiarito che il ruolo di consulente di imprese che hanno commesso illeciti penali tributari non è sufficiente a integrare il concorso nel reato del professionista essendo necessaria la prova di un contributo concreto, consapevole e ispiratore della frode da parte del consulente.

La compartecipazione al reato
Un quadro molto dettagliato in ordine all’individuazione del concorso del consulente nel reato del cliente è stato fornito di recente dalla Suprema Corte (sentenza 8785/2020). I giudici hanno innanzitutto evidenziato che nella maggior parte dei reati tributari non vi è dubbio che il soggetto attivo del reato possa essere soltanto il contribuente obbligato dell’adempimento.

Tuttavia anche soggetti diversi (ad esempio commercialisti, consulenti contabili, avvocati e in generale coloro che prestano assistenza in materia tributaria) possono occupare una posizione penalmente rilevante rispetto ai clienti. A tal fine per ritenere il professionista compartecipe nei reati perpetrati dal proprio cliente, è necessario che sia integrato il dolo specifico dell’illecito e, pertanto, che l’apporto prestato sia “intriso” di volontà fraudolenta finalizzata all’evasione.

L’indagine dovrà così essere tesa ad accertare che il professionista abbia agito scientemente ed unitamente al cliente, al fine di realizzare lo scopo da quest’ultimo prefigurato.

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