Civile

Estinzione società, effetti per 5 anni

di Enrico De Mita

Gli effetti dell’estinzione delle società di capitali e delle società di persone, ai fini fiscali, è differita di cinque anni dalla loro cancellazione dal registro delle imprese.

La norma risponde a esigenze di controllo e accertamento negli ordinari termini previsti dalla disciplina tributaria e di notifica dei relativi atti direttamente all'originario debitore.

Con la sentenza 142 dello scorso 8 luglio, la Corte costituzionale ha confermato la piena legittimità della norma dell’articolo 28 Dlgs 175/14; negando la fondatezza delle censure che la Ctp di Benevento aveva mosso per ritenuta violazione degli articoli 3 e 76 Costituzione (ordinanza 142/2019 del 13 marzo 2019 nella Gazzetta ufficiale 39/19).

L’articolo 28, citato, prevede che, ai soli fini della liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni, interessi, l’estinzione della società (articolo 2495 del Codice civile) ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese. La norma riguarda le società di capitali.

La Corte, però, sottolinea in più luoghi che è corretta la lettura data dalla Cassazione di applicazione estensiva anche alle società di persone (sezione tributaria 6743/2015). L’estinzione della società, derivante da cancellazione “su richiesta” del privato (e non d’ufficio), non può far venir meno la validità ed efficacia degli atti tributari. Diversamente, il privato, a suo piacimento, potrebbe così sottrarsi, in qualsiasi momento, all'adempimento degli obblighi tributari.

La Corte è chiara nel rimarcare che alcune deroghe al diritto comune, previste dalla legge tributaria, se ragionevoli e giustificate dall’interesse fiscale costituzionalmente inteso, sono legittime: « non è configurabile una piena equiparazione fra le obbligazioni pecuniarie di diritto comune e quelle tributarie, per la particolarità dei fini e dei presupposti di queste ultime (291/1997), che si giustificano con la “garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato” (281/2011), cui è volto il credito tributario ».

La norma è nata dalla necessità del legislatore di evitare che le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori, che perseguono l'interesse fiscale, possano essere vanificate dall’estinzione della società.

La sentenza si inserisce bene in una giurisprudenza costituzionale che, in diverse ultime pronunce, è elettivamente orientata al rilievo sistematico e all’orientamento interpretativo di alto spessore (tra le le più recenti 158/2020 sull’articolo 20 del Dpr 131/86).

Anche la sentenza 142/20 richiama, raffinatamente, il legislatore al suo dovere: intervenire sulla norma, chiarendo estensione a tutte le società, sia di persone che di capitali.

Nel contempo, richiama anche il contribuente ai suoi obblighi verso la comunità.

L’interesse fiscale non è sacrificabile alle scelte privatistiche che possono intervenire strumentalmente sulla vita della persona giuridica sottrarla all'adempimento dei suoi obblighi tributari. La noma del comma 4 dell’articolo 28, in sostanza, non fa “rivivere” la società estinta, ma differisce di 5 anni, a fini fiscali, gli effetti dell’estinzione della società decorrenti dalla “richiesta” di cancellazione dal Registro delle imprese. Tale differimento è limitato al settore tributario e contributivo ed è pienamente giustificato, atteso che non esiste un principio di parità di trattamento tra lo Stato-creditore sociale e gli altri creditori privati. Il credito tributario, portatore dell’interesse fiscale, non deve ricevere il medesimo trattamento di qualsiasi altro interesse creditorio, perché non è equiparabile a nessun altro pari interesse creditorio, in quanto è condizione di vita stessa per la comunità. La norma scrutinata è funzionale all'attuazione dell’interesse fiscale costituzionalmente rilevante. La conclusione della Corte è che «l’interesse fiscale perseguito dalle obbligazioni tributarie giustifica lo scostamento dalla disciplina ordinaria ».

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