Civile

Facebook, legittima la chiusura di pagine che incitano all'odio

di Pietro Alessio Palumbo

Il diritto alla libera manifestazione del pensiero politico incontra il limite del rispetto degli altrui diritti fondamentali, primo tra tutti il rispetto della dignità umana ed il divieto di tutte le discriminazioni, a garanzia dei diritti inviolabili spettanti ad ogni persona umana. In altre parole la libertà di manifestazione del pensiero non include discorsi ostili e discriminatori che invece sono vietati a vari livelli dall'ordinamento interno e sovranazionale. Chiarisce il Tribunale di Roma nell'ordinanza RG 64894/19 pubblicata il 24 febbraio 2020, che un ruolo di controllo fondamentale su tali "messaggi" spetta ai social media network come Facebook, con riferimento al rischio della diffusione in forma "virale" di incitamenti all'odio e alla discriminazione, e con il significativo impatto sui diritti umani che una simile massiva diffusione sul web può avere sulla società.

La vicenda - Facebook rimuoveva i profili degli amministratori di alcune pagine riconducibili alle diverse articolazioni territoriali di una organizzazione ritenuta gruppo che effettuava propaganda razzista, xenofoba, antisemita e neofascista. Il motivo comunicato agli iscritti riguardava contenuti contrari agli standard della comunità del social network. Dal che gli interessati lamentavano al Giudice l'illiceità della condotta del social network nei loro confronti in quanto, a loro dire, lesiva del diritto fondamentale alla libera manifestazione del pensiero. Gli interessati inoltre asserivano di non aver veicolato contenuti d'odio e chiedevano il ripristino dei loro account con tutte le collegate pagine amministrate.

La decisione - Allegando una corposa mole di materiale esemplificativo, il Tribunale di Roma ha giudicato che i contenuti, che inizialmente erano stati rimossi e poi a fronte della reiterata violazione avevano comportato la disattivazione degli account, sono illeciti da numerosi punti di vista. Dal che Facebook non solo poteva risolvere il contratto grazie alle clausole contrattuali accettate al momento della sua conclusione, ma, una volta venutone a conoscenza, aveva anche il preciso dovere "legale" di rimuovere i contenuti, rischiando altrimenti di incorrere in pertinenti responsabilità. Un dovere imposto anche dal codice di condotta sottoscritto con la Commissione Europea. Va evidenziato che nel nostro sistema ordinamentale nessuna forza politica, pena la sua immediata chiusura e responsabilità legale, può esplicitamente rifarsi all'ideologia fascista o nazista, al razzismo, alla xenofobia o, in generale, proclamare idee apertamente discriminatorie. Nel caso di specie non si tratta di una generalizzata compressione per via giudiziaria della libertà di espressione di singoli individui o di un gruppo, ma della possibilità di accedere ad uno specifico social network/social media, strumento attraverso il quale i produttori di contenuti sono in grado di raggiungere moltissime persone. In altre parole la compressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero è giustificata dal fatto che la tolleranza e il rispetto della dignità di tutti gli esseri umani costituiscono il fondamento di una società democratica e pluralista. Ne consegue che, in via di principio, si può considerare necessario, nelle società democratiche, sanzionare e cercare di prevenire tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l'odio basato sull'intolleranza e le discriminazioni. A ben vedere un'espressione discriminatoria o di odio, lasciata virale e non controllata, può creare un clima e un ambiente che inquina il dibattito pubblico e può persino nuocere coloro che non sono utenti della piattaforma web. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero è sacrosanto ma può incorrere in limitazioni proprio in materia di incitamento all'odio. I discorsi d'odio in grado di negare il valore stesso della persona umana non rientrano nell'ambito di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, la quale non può spingersi sino a negare i principi fondamentali e inviolabili del nostro ordinamento costituzionale. E nel caso di specie per certo rileva inoltre: l'effetto moltiplicatore di internet e del social network; la velocità istantanea di diffusione dei messaggi postati; la possibilità di raggiungere immediatamente milioni di destinatari; la capacità del contenuto offensivo di sopravvivere per un lungo arco di tempo oltre la sua immissione, ed anche in parti del web diverse da quelle della sede in cui era stato originariamente inserito. Ma non solo. Sotto altra ottica evidenzia il Tribunale di Roma che, in assenza di evidenti differenze contenutistiche tra l'online e l'offline hate speech, dissomiglianze sono individuabili in alcune componenti strutturali della rete, che possono fungere da fattori agevolatori dei messaggi discriminatori, aumentandone di conseguenza le potenzialità lesive nel mondo virtuale, ma anche in quello "reale".

Tribunale di Roma – Ordinanza 24 febraio 2020 n. 64894

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