Penale

Mobbing e straining: figure distinte ma equiparabili sul piano processuale e risarcitorio

di Pietro Alessio Palumbo

Lo straining è una figura affine al mobbing dal quale si differenzia per l'assenza di condotte reiterate nel tempo da parte del datore di lavoro e per la conseguente mancanza di un intento vessatorio idoneo ad unificarle all'interno di un fenomeno comportamentale unitario. In proposito, ha precisato il Tribunale del Lavoro di Pavia con la recente sentenza n. 85/2020 che se la condotta nociva si realizza con una azione unica ed isolata, o comunque con più azioni prive del carattere della continuità, si è in presenza dello straining, comportamento che produce una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa e, in genere, una situazione stressante, che, a sua volta, dando luogo a disturbi psico-somatici, psico-fisici o psichici, pur mancando del requisito della continuità nel tempo della condotta considerata, può essere sanzionato in sede civile al pari del mobbing.

La vicenda - Un dipendente comunale conveniva in giudizio il datore di lavoro lamentando un pluridecennale "calvario" lavorativo fonte di danni patrimoniali e non patrimoniali di cui chiedeva il risarcimento. Segnatamente il lavoratore asseriva che a seguito di rifiuto della concessione di alcuni permessi per pratiche edilizie e dopo aver denunciato alcune irregolarità, era divenuto per il datore di lavoro «un elemento scomodo, da ridimensionare e penalizzare». Il datore di lavoro si difendeva affermando la contradditorietà della ricostruzione degli eventi fatta dal dipendente, allegando a conforto un compendio documentale.

La decisione - Investita della controversia, la sezione lavoro del tribunale di Pavia ha innanzitutto richiamato la vigente normativa sul rapporto di lavoro subordinato secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. In tema vanno richiamate le figure del mobbing e dello straining. Ebbene si parla di mobbing lavorativo qualora ricorrano insieme: una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica o nella propria dignità; l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi. A ben vedere l'elemento qualificante della figura in esame va ricercato non tanto nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell'intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. Simile, tuttavia distinta, dalla fattispecie appena esaminata è la figura dello straining. In particolare, lo straining può essere definito come una "forma attenuata" di mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere, ad esempio, in caso di singoli comportamenti quali il demansionamento, la dequalificazione, l'isolamento o la privazione degli strumenti di lavoro. Segnatamente al fine di accertare la configurazione dello straining occorre valutare se la situazione di conflitto venutasi a creare fra le parti sia stata accentuata dal comportamento del lavoratore, dal momento che il contributo che questi abbia dato, con le proprie condotte, alla determinazione di una situazione di conflitto duratura nel tempo conduce ad escludere la possibilità di risarcimento. In altre parole, è la stessa condotta del lavoratore che può impedire l'individuazione di una condotta stressogena del datore di lavoro nei suoi confronti. In ogni caso – si badi - le predette figure trovano entrambe rilevanza giuridica mediante l'articolo 2087 del codice civile, tanto che, da un lato, non incorre in violazione dell'articolo 112 Cc il giudice che qualifichi la fattispecie in termini di straining a fronte di una deduzione di mobbing, trattandosi semplicemente di differenti qualificazioni di tipo medico-legale utilizzate per identificare comportamenti ostili connotati da rilevanza giuridica alla luce del precetto normativo e, dall'altro lato, che, quale che sia la qualificazione giuridica assegnata ai comportamenti ascritti al datore di lavoro, incombe in ogni caso sul lavoratore l'onere di provare, oltre l'esistenza del danno, anche la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra. Di talché, solo a fronte di tale prova, sussiste per il datore di lavoro l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno lamentato dal lavoratore.

Tribunale di Pavia – Sentenza 22 maggio 2020

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