Professione e Mercato

Sanzionato l'avvocato che impreca contro il cliente solo se l'insulto riguarda il rapporto professionale

di Marina Crisafi

Imprecare contro il cliente può avere rilievo disciplinare. Ma soltanto se la condotta lede la dignità dell'avvocatura ed è collegata al rapporto professionale. Lo ha affermato il Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 67/2019 "assolvendo", tuttavia, un avvocato dalla sanzione della sospensione ma cogliendo l'occasione per ribadire l'inopportunità per il legale di far sconfinare il rapporto professionale in una relazione con una cliente.

La vicenda - Il caso ha inizio con la denuncia-querela presentata da una donna innanzi alla procura di Perugia e il coevo esposto al COA locale nei confronti del proprio avvocato.
La signora lamentava, oltre a inadempimento del mandato e trattenimento di somme a lei destinate, molestie telefoniche e tramite sms (con comunicazioni del seguente tenore: «non so perché ma pensavo alle tue labbra ... fai fai ti aspetto in trepidante attesa … volevo dirti una cosa: io ti credo una donna non banale; non scontata; sempre interessante; se vuoi e se sei libera vorrei averti per pranzo e ti aspetto a studio alle 12,45. Se non ti sento resterò il tuo avvocato. PS come donna mi piaci da morire come persona credo che valga la pena di conoscerti meglio» ... «porca [OMISSIS] ti chiamo io».
Il consiglio apriva procedimento disciplinare che culminava nella irrogazione della sospensione disciplinare di 6 mesi dalla professione.
L'avvocato dal canto suo ricorreva al CNF lamentando la superficialità e frettolosità della decisione del COA e la mancata considerazione di testimonianze, al di fuori delle dichiarazioni della cliente.

Imprecazione sanzionata se lede la dignità dell'avvocatura
- Per il CNF il ricorso del legale va accolto, in quanto la decisione del Coa è fondata esclusivamente sulla base dell'esposto e della documentazione presentati dalla cliente, mentre secondo la costante giurisprudenza: «i fatti denunciati dall'esponente non sono, da soli, sufficienti a fondare la responsabilità disciplinare dell'avvocato, che può essere affermata solo a seguito di puntuali riscontri probatori» (per tutte da ultimo Cnf sentenza n. 230/2017).
Entrando nel merito, invece, il Consiglio, ritiene non provate le accuse della donna circa l'inadempimento del mandato e l'indebito trattenimento di somme, concentrandosi poi sull'esame delle molestie denunciate.
Molestie che, a detta del Cnf, vanno valutate non solo alla luce delle frasi riportate ma dell'intero scambio di messaggi tra i due. «E' indubbio – rilevano infatti dal Consiglio - che il rapporto avesse superato i limiti del mandato professionale, ma risulta anche evidente come, dapprima, agli inviti dell'uno si sovrapponessero quelli dell'altra e come alle manifestazioni di affetto dell'uno non si sia mai contrapposto un rifiuto od un chiarimento da parte della esponente». Poi il "feeling" è venuto meno ed i reiterati messaggi dell'esponente hanno portato il ricorrente all'imprecazione contestata.
Un comportamento che, continua la sentenza, è «sicuramente deprecabile, ma che non risulta rilevante sotto il profilo deontologico, in quanto, non solo estraneo al rapporto professionale, ma, inquadrato nel contesto, frutto di una irritazione momentanea e personale nei confronti della persona che aveva catturato il suo affetto, chiaramente manifestato».
Per cui è da ritenere che nessun degrado o pregiudizio sia derivato alla dignità dell'avvocatura da tale manifestazione di intolleranza.

Inopportuna la relazione con la cliente - Piuttosto, però, per il Cnf è da «rimarcare l'inopportunità che l'avvocato consenta al rapporto professionale con la cliente di scivolare in un diverso rapporto decisamente personale». Ad ogni modo, dagli scambi di messaggi agli atti, non traspare alcuna molestia o oppressione da parte dell'avvocato, «il quale manifesta i propri sentimenti, senza peraltro ricevere sdegno o smentite od inviti contrari a coltivare il rapporto, nonostante la china sulla quale stava od era scivolato».
Da qui, non ritenendo raggiunta la prova piena e rassicurante della sussistenza di un comportamento deontologicamente scorretto da parte dell'incolpato, il Cnf accoglie il ricorso e annulla la sanzione.

Cnf – Sentenza 67/2019

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