Amministrativo

Artigiani e gastronomie senza camerieri

di Guglielmo Saporito

Coltelli affilati tra artigiani, esercizi di vicinato (salumerie), gastronomie e ristoranti, con interventi di Stato, Regioni, Comuni e autorità garante della Concorrenza. Il campo di battaglia sono le aule del Tar Lazio, dove la sentenza 28 febbraio 2020 n. 2619 delimita l’incerto confine tra gli artigiani del settore alimentare ed i ristoratori.

I primi, se iscritti all’albo previsto dalla legge 443/85, possono vendere i propri prodotti sia nel locale dove operano che in quelli contigui. Acqua e bevande gassate sono sempre consentite, senza iscrizione al registro degli esercenti del commercio. Esaminando i problemi del centro storico della capitale, il Tar ritiene che l’artigiano può utilizzare il locale e gli arredi dell’azienda senza fornire un servizio assistito (cioè i camerieri).

Diversa è la gastronomia (licenza di vicinato alimentare), che soddisfa in modo celere chi vuole bevande e alimenti, compresi quelli altrove confezionati.

Questi ultimi alimenti possono esser cucinati o riscaldati (piastra o al forno), preventivamente o richiesta del cliente, purché - sottolinea il Tar - senza una vera cucina. La soglia da non superare per restare artigiani riguarda un mix di preparazione pasti, locali, macchinari e personale: se prevale il servizio, si è in presenza di un ristorante. Quindi, l’artigiano alimentare iscritto all’albo, senza alcuna scia o autorizzazione commerciale, può vendere e far consumare sul posto la produzione propria (ma non la gastronomia).

Se manca l’iscrizione all’albo, l’artigiano può solo produrre e trasformare alimenti, senza venderli sul posto.

Chi ha un laboratorio di gastronomia e non risulta iscritto all’albo degli artigiani, può solo vendere i prodotti alimentari e far consumare sul posto i prodotti di gastronomia, ma non quelli alimentari di propria produzione.

Tutte queste prescrizioni di dettaglio generano forti contrasti quando si discute dell’utilizzo dei locali e degli arredi dell’azienda. Solo la licenza di ristorazione consente al cliente di accedere a un locale per trattenervisi e consumare pasti caldi e freddi, preparati e somministrati insieme a un servizio reso da specifico personale, con strumentazioni e arredi idonei.

Invece, nella vendita di prodotti alimentari con facoltà di consumo sul posto, prevale la compravendita dei singoli pezzi, cioè la fornitura al cliente di un prodotto alimentare grezzo, solo eventualmente già cucinato, comunque destinato ad asporto o al consumo senza servizio assistito ai tavoli, cioè senza un’organizzazione dell’azienda che renda prevalente la produzione del prodotto rispetto al servizio.

Al di là dell’insegna contano le modalità di presentazione dell’offerta dei prodotti, i banconi, la predisposizione di porzioni, la vendita a peso con bilance, i listini prezzi (che non devono sembrare menù) e il personale, che deve solo riassettare ma non operare ai tavoli.

Poco prima della sentenza Tar, due pronunce del Consiglio di Stato (2280/2019 e 8923/2019) avevano spostato i confini tra artigianato, commercio e ristorazione, ponendo termine a precedenti contrasti che utilizzavano, per decidere sull’esistenza o meno della ristorazione, su dettagli trascurabili quali la differenza tra sedie e sgabelli nonché tra sedute comode e sgabelli alti. Oggi si torna a criteri più obiettivi, quali appunto l’utilizzo del personale.

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