Professione e Mercato

Il Covid spinge gli studi digitali: investimenti a quota 1,6 miliardi di euro

di Dario Aquaro

«L’anno prossimo, quando guarderemo i numeri definitivi del 2020, sarà evidente la spinta data dall’emergenza Covid-19 agli investimenti digitali negli studi. La crescita rispetto al 2019 sarà molto più alta del 4,8% che prevediamo ora». Claudio Rorato è direttore dell’Osservatorio professionisti e innovazione digitale del Politecnico di Milano. E quel 4,8% è la stima 2020 dell’investimento totale in Ict degli studi professionali, come risulta dall’ultima ricerca dell’ateneo (che sarà presentata venerdì 25 settembre).

L’attuale stima equivale a 1,57 miliardi – contro i quasi 1,5 del 2019 – ma lo stesso Rorato prevede potrà essere facilmente superata: «l’onda degli eventi legati al virus è stata ed è uno stress test importante. Si è diffusa una maggior consapevolezza dell’utilità delle tecnologie che si traduce in investimenti; anche se spesso nasce da obblighi di legge: si pensi alla fattura elettronica b2b, alla crisi d’impresa o ai corrispettivi telematici».

La ricerca
La ricerca dell’Osservatorio è stata condotta intervistando circa 2.400 studi italiani di avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, e multidisciplinari. Di ogni dimensione. Studi che l’anno scorso hanno mediamente speso in tecnologie informatiche 6.700 euro (avvocati), 11.500 (commercialisti), 8.900 (consulenti del lavoro) e 22.800 (multidisciplinari).

«Tranne che per i consulenti del lavoro, stazionari, le cifre sono in aumento. E rispetto al 2018 i commercialisti e gli studi multidisciplinari evidenziano un’impennata: più 23 e 48 per cento. Soprattutto è salito il numero di quanti hanno investito cifre superiori a 10mila euro: passati dal 5 al 25% del totale. Per i professionisti ciò non significa semplicemente avere più macchine, ma sapere quanto possano contribuire a sviluppare i modelli di business. Da questo punto di vista – sottolinea il professore – gli studi multidisciplinari sono i più consapevoli e strutturati, perché rispondono alla necessità di collaborazione richiesta dall’economia digitale».

L’analisi delle tecnologie

A scorrere il dettaglio delle tecnologie, la strada per una piena consapevolezza è ancora lontana. I sistemi per la gestione elettronica documentale – ad esempio – sono usati dal 49% degli avvocati, il 36% dei commercialisti e il 32% dei consulenti del lavoro. Un altro 25% in media dichiara di volerli introdurre nei prossimi due anni. Ma parliamo di un investimento che dovrebbe essere “basico”, di tecnologie utili a rendere efficienti i processi e che ogni studio dovrebbe avere.

«Senza considerare gli studi multidisciplinari, lo stesso discorso si potrebbe fare circa i software per il controllo di gestione dei clienti o le applicazioni di business intelligence, per gestire i dati a scopo decisionale. Anche in questi casi la propensione all’investimento nei prossimi due anni è intorno al 25 per cento». Con l’importante eccezione dei commercialisti, che sulle app di business intelligence hanno già investito più degli altri (usate per il 22%, contro il 6% di avvocati e consulenti del lavoro), mentre un ulteriore 39% afferma di volerle acquisire. «I dati – riassume Rorato – sono un asset patrimoniale che ogni studio dovrebbe sfruttare: chi investe nella loro analisi consegue inevitabilmente un vantaggio competitivo»

Il competitivity index

A proposito di competitività, il report individua anche gli aspetti da manovrare per migliorare la posizione dello studio professionale, a partire da cinque leve competitive: innovazione, organizzazione, mercato, competenze, collaborazione. Un’analisi che ha prodotto quattro cluster.

Ci sono i “fragili”, cioè gli studi più deboli, che hanno bisogno di una strategia pianificata di cambiamento in tutte le cinque leve. I “vulnerabili”, che hanno raggiunto un buon livello di stabilità ma hanno un elevato livello di commodity nei processi lavorativi, i servizi e le competenze (e sono quindi esposti alla necessità di dover aumentare molto le dimensioni dello studio). I “resilienti”, che di fronte alle difficoltà sanno reagire velocemente, con un’elevata capacità di adattamento, garantendo alla clientela continuità, trasparenza ed efficacia nei servizi. E gli “antifragili”, con modelli organizzativi e di business più evoluti, che non si limitano ad adattarsi all’ambiente ma ne cavalcano la discontinuità, trasformandola in opportunità.

Risultato: la fragilità e la vulnerabilità esprimono i punteggi più alti tra gli avvocati, che mostrano in particolare una più bassa capacità di sviluppare la collaborazione all’interno e all’esterno dello studio. I consulenti del lavoro, appena dietro ai multidisciplinari tra gli antifragili, possono invece migliorare partendo dall’innovazione: web marketing, knowledge management system, piattaforme digitali per sviluppare clientela e gestire visibilità, eccetera. E i commercialisti? Oltre che sulla collaboration, sono chiamati a lavorare sul mercato: ampiezza e tipologia del portafoglio servizi e del portafoglio clienti.

Quanti ai singoli punti di forza, se i commercialisti e i consulenti del lavoro sono focalizzati soprattutto sulle competenze (formazione), gli avvocati ottengono il punteggio migliore in innovazione. «Gli studi multidisciplinari, che sono invece i più maturi e competitivi, hanno performance brillanti nelle competenze e nell’organizzazione. Questo – chiosa Rorato – è anche il loro valore aggiunto: la capacità di essere un interlocutore unico per le imprese, con più profondità e ampiezza di gamma nei servizi».

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