Amministrativo

Stop alle interdittive antimafia nei contratti stipulati tra privati

di Giuseppe Latour e e Guglielmo Saporito

Un vuoto normativo rende inutilizzabili le informative antimafia nei rapporti tra privati. Non può, cioè, essere utilizzato fuori dal perimetro dei contratti con la pubblica amministrazione il documento che attesta l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di una società.

La dirompente conclusione arriva dal Consiglio di Stato (sentenza 452 del 20 gennaio 2020) e, oltre a creare una gigantesca spaccatura tra contratti pubblici e privati sul fronte delle tutele, ha l’effetto di travolgere anche tutti quei protocolli di legalità che puntano a rafforzare i controlli in ambito privato.

Un’informativa che attesta il tentativo di infiltrazione - va ricordato - nel campo degli appalti pubblici porta all’esclusione dell’impresa. La pronuncia del Consiglio di Stato, invece, spiega che questo stesso principio non può essere applicato anche nel campo degli appalti privati, proprio quando la stessa committenza privata si stava orientando, attraverso i protocolli di legalità, alla selezione più stretta delle imprese.

Tutto deriva, come spiegano i giudici, «dalla doverosa applicazione di una disciplina normativa che non offre diversa lettura». Le norme vigenti (articolo 83 del Codice antimafia 159/2011, modificato nel 2018) consentono infatti di utilizzare le cautele antimafia solo nei rapporti con la pubblica amministrazione: la conseguenza è che i soggetti privati non possono chiedere alle prefetture alcuna documentazione sui rischi di condizionamento mafioso delle imprese cui intendono affidare appalti. Per i privati, resta così inutilizzabile la documentazione, delle prefetture e del casellario gestito dall’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), sulle interdittive antimafia.

Nel caso affrontato dalla sentenza, Confindustria Venezia aveva varato un protocollo di legalità, cioè uno schema tipo di contratto tra privati: chi avesse aderito a questo protocollo (pur non essendovi tenuto, in quanto impresa privata) si impegnava a chiedere, prima di stipulare contratti, informazioni antimafia alla prefettura. In questo modo, anche nei rapporti tra privati si intendeva evitare il pericolo di infiltrazione mafiosa.

L’obiettivo di questo schema era trasferire nei rapporti tra privati il sistema pubblico di controlli, basato su indagini e giudizi della magistratura penale. Ma ora il Consiglio di Stato frena questa tendenza, osservando che l’informativa antimafia può essere chiesta solo per rapporti contrattuali con pubbliche amministrazioni, e quindi non per rapporti economici tra privati. Se un privato vuole affidare l’esecuzione di lavori ad un’impresa, dovrà ora accertare in proprio, senza l’ausilio delle prefetture e dell’archivio Anac, la qualità del potenziale appaltatore.

Più nello specifico, secondo la legge i soggetti che devono acquisire la documentazione hanno tutti natura pubblica: si tratta di amministrazioni ed enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, enti e aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico, «nonché i concessionari di lavori o di servizi pubblici». A questi vanno aggiunti i contraenti generali. Inoltre, ricorda la sentenza, questa documentazione «può essere utilizzata solo nei rapporti tra una pubblica amministrazione ed il privato e non, come nella specie, nei rapporti tra privati».

Esiste allora un vuoto nella nostra legge: mentre il tessuto economico vede espandersi i controlli antimafia, impedendo anche attività private (autorizzazioni commerciali, Scia, permessi edilizi, concessioni demaniali), la normativa antimafia non prevede nulla nei rapporti tra privati. La legge applica i controlli solo ai casi in cui il privato in odore di mafia contragga con un parte pubblica, mentre l’attività economica tra privati è completamente libera. E questo vuoto normativo non può essere colmato da un protocollo di legalità.

A questo proposito, allora, i giudici si chiedono se non sia il caso di «valutare il ritorno alla originaria formulazione del Codice antimafia, nel senso che l’informazione antimafia possa essere richiesta anche da un soggetto privato ed anche per rapporti esclusivamente tra privati».

Consiglio di Stato - Sentenza n. 452 del 20 gennaio 2020

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